Come si mangia da: “Alessandro Borghese – Il Lusso della Semplicità” (Milano)
I Castelli Romani e Roma rappresentano casa per me, ma ovviamente ogni volta che ne avrò occasione cercherò di provare – per poi raccontare – esperienze in bar, enoteche e ristoranti che si affacciano anche al di fuori dei confini romani.
Per battezzare quindi la rubrica di recensioni “straniere” direi di esordire con l’acerrima “rivale” della Capitale, ovvero Milano. Non si può non riconoscere il fatto che Milano (e dintorni) sia diventato un vero e proprio polo gastronomico di primo livello, capace di attirare alcuni dei cuochi più blasonati del panorama nostrano, offrendo tipologie di cucine e stili tanto diversi tra loro quanto complementari. Tuttavia mi pare doveroso iniziare – a livello individuale – con un romano per eccellenza che a Milano ha ormai (professionalmente) piantato le radici. Forse ad oggi è tra i 10 chef più famosi d’Italia grazie ai suoi numerosi progetti culinari e televisivi ed è rinomato per la sua capacità di poter ribaltare qualsiasi risultato. Ovviamente stiamo parlando del carismatico Chef Alessandro Borghese.
Per chi non ne fosse al corrente, lo chef ha deciso nell’autunno del 2017 di aprire il suo primo ristorante nel cuore della City Life, il centro nevralgico della Milano che fattura H/24 come direbbe il buon Germano Lanzoni – il Milanese Imbruttito per il grande pubblico. Non solo: il ristorante, situato al primo piano in stile locale londinese, si trova in uno storico edificio nato dalla mente del mitico Gio Ponti. Per non farsi mancare nulla, lo chef ha spostato al suo interno anche la sua “AB Normal – Entertainment Company”, società di proprietà di Borghese stesso ed impegnata anche in catering, eventi, live cooking e molto altro ancora. Insomma, un vero e proprio quartier generale!
Disclaimer. In questi ristoranti, solitamente, il concetto su cui si basa il menù (in particolare quello di degustazione) è una vasta serie di portate, ma ridotte. Sottolineare questo dettaglio è fondamentale perché troppo spesso si sente la solita, obsoleta polemica da bar “si ma non si può spendere un patrimonio per un piattino così piccolo”; diciamo che sta diventando vecchia e che sarebbe anche ora di capire che esistono molti concetti di ristorazione.
Dopo queste doverose premesse direi che è il momento di cominciare con la recensione dell’esperienza, capitata tra l’altro in un giorno importante come quello di Pasqua (2019, quindi ben prima dell’avvento del COVID-19).
Una volta entrato dalla porta d’ingresso si viene accolti da una sorridente ed elegante receptionist che ci invita a salire le futuristiche scale che portano alla sala principale, posta al primo piano. Li si viene accolti dal numeroso staff dedicato al servizio in sala, sorridenti e concentrati a far sentire gli ospiti subito a loro agio.
Il ristorante – da 50 coperti – è veramente curato e con un fascino d’altri tempi. Essendo io non proprio ferrato nel settore artistico e del design, sono andato a cercare una precedente intervista dello chef per scoprire che ha basato l’architettura su uno stile retrò Anni Venti, molto da nave da crociera; dopotutto questo è un dettaglio non trascurabile. Lo chef ha lavorato diversi anni sulle navi e nell’autunno del 1994 rischiò di morire dopo che la Achille Lauro, nave in rotta tra l’Italia ed il Sudafrica, affondò al largo della Somalia. In Rete c’è scritto che lo chef ed altri superstiti spesero 3 giorni su una zattera in mezzo all’oceano prima di essere salvati. La sala è bellissima e non prevede l’utilizzo di tovaglie, ma in compenso è pieno di oggetti dal design minimal ed elegante.
Dopo essersi seduti, viene ovviamente consegnato il menù del ristorante – e qui sono costretto a fare un’altra premessa. Nella mia modestissima opinione la scelta migliore da fare in ristoranti high-end come questo è quella di affidarsi ciecamente allo chef e quindi provare un menù degustazione che viene studiato nel dettaglio e che prevede tante, piccole portate. Il trade-off sta nel palato, innanzitutto. Se una persona ha gusti un po’ rigidi potrebbe non gradire questa opzione. Tuttavia è molto più conveniente a livello economico rispetto alla scelta di un paio di piatti alla carta e se non si ha particolari problemi a sperimentare pietanze nuove (e senza sapere quali siano fino a quando non vengono portate al tavolo) è senza dubbio la scelta migliore da prendere. Dopo aver chiesto eventuali allergie o intolleranze, lo staff procede con il servizio.
Nel caso specifico di questo ristorante il menù degustazione più esaustivo costa €90 (bevande escluse) e prevede 6 portate – 2 antipasti, due primi, un secondo e un dolce. Per cominciare viene servito un delizioso assortimento di pani fatti a mano in un bellissimo vassoio basso che sembra quasi fatto di ghisa.
Come acqua gasata viene servita la piacevolissima acqua Norda, acqua la cui sorgente proviene dalla Valsàssina, in provincia di Lecco – pertanto un’acqua autoctona, lombarda DOC. Però è anche giusto aggiungere un po’ di eleganza al tavolo, pertanto su consiglio del sommelier arriva un Brut Reserve di Paul Bara, uno Champagne con un uvaggio composto da Pinot Nero (80%) e Chardonnay (20%), decisamente fresco, con una prevalenza di sentori fruttati sia al naso che in bocca: un calice perfetto per iniziare il pasto.
Ed è qui che comincia il bello, grazie all’arrivo della prima portata. Oltre alla bella presentazione, i responsabili del servizio dei piatti si preoccupano anche di descrivere in maniera esaustiva il piatto, gli ingredienti e i metodi di cottura. Si parte con una tartare di tonno con pelle di pomodoro croccante, vinaigrette alla senape di Dijon e riduzione di mango. Ammetto di non essere il fan numero uno delle tartare (o del crudo in generale) ma il contrasto del tonno con il pomodoro croccante, oltre alle salse (magnifica la riduzione di mango) hanno fatto sì che come antipasto per “scaldare” la bocca fosse azzeccato.
Si prosegue col secondo antipasto, questa volta con sfilacci di gallina padovana “Latte e miele” (con un utilizzo anche di farina di cocco), gelatina del suo brodo, maionese al curry, polvere di capperi e melone. Il maitre sottolinea la particolarità della gallina padovana ed io, incuriosito, vado a cercare maggiori informazioni in Rete. Scopro che si tratta di una razza importata dalla Polonia nel 1500 da alcuni studiosi padovani. Grazie alla presenza di penne sul capo che sostituiscono la cresta (non avrebbe sfigurato al Festival di Woodstock del 1969!) portò ad un adattamento ottimale per un clima freddo e rigido, facendo sì che garantisse una buona produzione di uova anche nel periodo invernale. Per quanto concerne la carne invece è molto magra, quasi asciutta – ma bilanciata dalla consistenza delle salse e dalla gelatina. Anche qui ho avuto il piacere di mangiare un ottimo piatto.
Qui il livello comincia ad alzarsi. Questa volta il (bellissimo) piatto è una fregola sarda con crudo di gamberi rossi di Mazara del Vallo, crema al basilico, limone e capperi fritti. Si gioca in tutto e per tutto in casa delle “isole”, data la presenza di uno dei migliori gamberi nostrani (Mazara del Vallo si trova a pochi chilometri da Marsala, in provincia di Trapani) e della fregola, una tipica pasta sarda composta da piccole palline di grano duro e acqua, lavorate a mano e tostate nel forno – viene anche chiamata il cous cous italiano. Tutti gli elementi presenti nel piatto esaltano una spiccata morbidezza (da non confondere con la dolcezza) ma, come giustamente sottolineato dal maitre, i capperi fritti conferiscono quel tocco deciso di sapidità che bilancia perfettamente il piatto. Sinceramente anche qui un gran bel “pollice in su” va dato.
E qui ragazzi passiamo “alle cose formali” (i tifosi del Milan capiranno al volo) perché è arrivato il momento dell’illustre cacio e pepe. Anzi: degli spaghetti alla chitarra Pasta Armando cacio e pepe. Se c’è un vero e proprio cavallo di battaglia dello Chef Borghese è proprio la sua cacio e pepe. Dopotutto è il nome del suo ultimo libro, piatto cardine della cucina romana e motivo di contesa (del bonus) della gara tra fraschette in una delle puntate di “Alessandro Borghese – 4 Ristoranti”. Uno però potrebbe chiedersi: cosa rende così speciale la sua cacio e pepe? Una delle risposte va ricercata anche nella scelta dei pepi. Lo chef infatti ha optato per un blend tanto suggestivo quanto atipico: un pepe nero nostrano (della Puglia) ed uno proveniente dalla Tasmania, contenente un antociano simile a quello presente nell’uva e che conferisce quasi un colore violaceo al momento della mantecatura – oltre ad una fragranza non indifferente. Al resto ci pensano la qualità degli ingredienti utilizzati e la mano sapiente di chi si mette dietro ai fornelli. Non mi sbilancio troppo nel dire che, dall’alto della mia vasta esperienza di assaggi di cacio e pepe in giro per la Capitale, questa assaggiata qui a Milano strappa a chiunque – finora – lo scettro della migliore. In Assoluto! Dirò di più. Per quanto tutto sia curato nel dettaglio, la sola cacio e pepe vale il prezzo del biglietto. Ha però un difetto: finisce subito. Cinque forchettate medie e la poesia termina. Ma è un viaggio che vale la pena di compiere.
Non finisce qui perché con la cacio e pepe volevo assolutamente abbinare un vino. Avevo dato uno sguardo alla carta dei vini – è quasi uno dei miei passatempi preferiti quello di consultare le carte dei vini, vedere come sono presentate e soprattutto quali etichette presenta – e prima che potessi esprimere la mia scelta ricevo il [saggio] consiglio del sommelier. Io solitamente punto sempre all’abbinamento territoriale, il mio preferito, ma per l’occasione sono “migrato” nel continente oceanico, precisamente a Marlborough, una delle migliori zone vitivinicole non solo della Nuova Zelanda, ma del mondo intero. Ad accompagnare la cacio e pepe quindi ci ha pensato un bellissimo “Pounamu” Sauvignon Blanc dell’azienda Vinultra (annata 2017). Il risultato è stato sorprendentemente positivo: sebbene il Sauvignon Blanc in questione presentasse un bouquet ed un palato estremamente fruttato (tropicale), il vino si è prestato alla perfezione per la pasta, creando un abbinamento armonico (sebbene sulla carta non sarebbero dovuti essere compatibili). Un grande “complimenti” al sommelier Giovanni per il consiglio! Ma non è ancora finita. Proseguiamo…
Adesso è il momento del secondo: stracotto di guancia di vitello, purea di patate al burro acido e salsa al prezzemolo. Poco da dire: il contrasto dei 3 ingredienti ha creato un piccolo capolavoro di gusti diversi ma complementari. La guancia era cotta in maniera sublime, rendendola tenerissima ma anche molto succulenta. La purea di patate presentava un’acidità non indifferente grazie al burro acido, mentre la salsa al prezzemolo è stato il jolly che ha permesso al piatto di presentarsi in maniera differente rispetto alla monotona accoppiata carne più patate – per quanto siano diverse nei vari casi i tagli, le cotture e le preparazioni. Non c’è che dire; finora tutto rasentava la perfezione.
Stavolta però entriamo nel mio territorio di caccia preferito (dopo quello delle paste e dei carboidrati in generale, sia chiaro), ovvero i dessert. Per l’occasione mi viene servito questo delizioso bicchierino che aveva in cima pistacchi caramellati, sotto ancora una bavarese di pistacchi, palline croccanti di cioccolato ed un cremoso al cioccolato al latte, con sotto un’altra parte di croccantezza dovuto a nocciole e pistacchi (di quest’ultima parte del dolce non sono sicuro al 100%, ero troppo impegnato ad ammirare il capolavoro). Dato che per questo pranzo pasquale non mi sono voluto far mancare nulla ho voluto accompagnare a questo delizioso dolce anche un vino (bianco) dolce. Quest’ultima è davvero la mia più grande passione e pertanto, dopo aver scrutato la carta dei vini, avevo solo l’imbarazzo della scelta. Tuttavia il maitre Pierpaolo, direttamente da Marsala, ha optato per un Ben Ryé di Donnafugata, probabilmente uno dei miei 5 vini bianchi dolci preferiti in assoluto. Un vero e proprio nettare dolce che non può fare altro che portarti in una dimensione che (posso solo immaginare) si avvicini all’Olimpo, dove gli dei dell’antica Grecia banchettavano mentre decidevano il destino di noi comuni mortali. Perdonate l’analogia esagerata ma è un modo per cercare di trasmettere la mia passione per questo prodotto siciliano d’eccellenza. L’abbinamento tra i due si è dimostrato semplicemente impeccabile ed io sarei in procinto di chiedere il conto. Ma non è ancora finita. Sono in estasi enogastronomica. Le mie difese si sono abbassate (se non addirittura dileguate). Sarei capace di dire “sì” praticamente ad una qualunque portata proposta, ma invece (sempre dopo un consulto del maitre) opto per la seconda dolce sorpresa del giorno. E quindi via di doppio dessert – ammetto che quasi mi vergogno a dirlo, ma si vive una volta sola!
Il bello è che per concludere questo vero e proprio banchetto regale ricevo un dolce estremamente in tema con la festività: Roger Rabbit, colomba artigianale piastrata, gel all’arancia, limone, cremoso alla nocciola e sfera di zucchero filato. Non credo serva sottolineare che lo zucchero filato mi ha fatto tornare indietro di 20 anni, quando da piccolo andavo al luna park più per mangiare lo zucchero filato che per andare sulle giostre (di cui ho sempre avuto una certa ‘paura’). Ad accompagnare questa chicca, stavolta, mi affido ciecamente al sommelier, che propone un superbo vino proveniente dal Friuli-Venezia Giulia, la Ribolla Gialla “Radikon”. Parliamo di un Orange Wine, pertanto non proprio la scelta migliore in termini di abbinamenti teorici con un dolce, ma nella pratica invece si è rivelata una mossa tanto azzardata quanto azzeccata, grazie anche ai sentori di mandorli ritrovati al gusto dopo un sorso di questo eccellente vino.
È finita. K.O. tecnico. La pancia è piena di cibo, ma il cuore è colmo di gioia. Ho avuto la fortuna di banchettare in un ristorante di classe, formato da un personale preparato, cordiale e proattivo, guidato da un cuoco-imprenditore (anche se assente per l’occasione) che ogni giorno di più si mette a lavorare duramente per portare alla vita i suoi innumerevoli progetti – guai a pensare che sia bravo solo a fare televisione; lo chef Borghese dietro ai fornelli ci sa fare, eccome!
Ovviamente abbiamo sforato i €90 del menu degustazione, dato che sulla tavola sono passati 4 calici di vini (tra cui uno champagne e due vini dolci, storicamente più costosi rispetto a quelli secchi) ed un secondo dessert. In totale il conto recita €144, molto di più rispetto alla cifra del menù. Forse questa è l’unica critica che rifilo per questa esperienza: un prezzo leggermente eccessivo per i vini dolci rispetto al volume servito nei bicchieri. Ma cosa posso dirvi? Mi sono lasciato trasportare e, in tutta sincerità, ne è valsa la pena. Il bello è che c’è un’altra sorpresa per tutti i commensali che hanno presenziato a Pasqua e Pasquetta: una colomba in omaggio!